Le scelte di Trump e gli stili direzionali muscolari

Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi, dopo l’elezione e la presa di potere di Trump, è una radicale ridefinizione degli stili direzionali e delle prerogative del “capo”. Badate bene che quello di Trump non è che l’ultimo degli esempi di un machismo da “capo indiscutibile”, che è diventato stile direzionale in molte organizzazioni da tempo, un mix tra competizione spinta agli eccessi, tattiche da bullo e arte dell’accordo.
Il primo aspetto che interessa alla cultura manageriale della “regola Trump” è la sua natura altamente competitiva che deriva da una visione di se estremamente spinta sull’edonismo personale; considerarsi un “vincente” autorizza il capo Trump ad una retorica che enfatizza il “mio” successo e la “mia” forza, che deriva solo dal fatto che io sono io, ho raggiunto il successo, sono stato votato e quindi ho legittimazione ad essere come sono. Questo è un aspetto che è comune a molti manager che hanno un ego smisurato, che tendono a costruire il consenso sul riflesso del proprio successo, caratterizzati da una forte componente psicologica narcisistica.
Altro elemento distintivo è vedere ogni cosa come contrattabile, monetizzabile, in un continuo do ut des che impone a tutti gli altri soggetti che hanno rapporti con lui una gestione transazionale di ogni cosa, con ogni negoziazione che viene però sminuita dal “capo” come fosse un gioco a somma zero, in cui c’è sempre un vincitore e un perdente. Ora questo approccio nel caso di Trump sicuramente ha funzionato nella sua vista professionale, indubbiamente negli affari immobiliari del tycoon questa caratteristica ha assunto ruolo importante e gliè riconosciuta la leadership negli affari che si è fatta largo usando i muscoli finanziari, spregiudicate azioni, ma in politica invece si deve avere una visione più ampia del singolo patto, della singola trattativa, vedere uno scenario più ampio con il rischio di generare, diversamente da quanto avviene negli affari, conflitti e divisioni infinite.
Trump del resto non ha mai fatto mistero di queste tecniche, nel suo libro “The Art of the Deal“, ha descritto l’importanza di controllare la percezione pubblica e di usare i media per modellare la realtà a proprio vantaggio. Non a caso c’è al suo fianco Musk, grande manipolatore anche lui della comunicazione globale, e maestro di visioni ambiziose e grandiose, anche superando in fantasia quanto sia effettivamente possibile realizzare (Panama e la Groenlandia per citarne due) perché serve a impressionare e motivare gli interlocutori, creando un’immagine di sicurezza e determinazione.
Chi legge potrà obiettare che un manager deve dare concretezza e risultati, e si domanderà come si coniuga questa necessità con la promessa infinita di meravigliosi obiettivi da raggiungere (e sapendo che molti obiettivi non verranno raggiunti). Esagerare i propri successi è la chiave di questo stile manageriale: i miei successi giustificano porre obiettivi alti e impossibili per tutti. E gli esempi di manager che hanno costruito un’immagine di sé come negoziatore infallibile, direttore commerciale vincente, CEO amato e seguito ecc.. ne conosciamo, è una tecnica fondamentale che si raggiunge mortificando le menti libere nelle organizzazioni (a volte relegandole a ruoli secondari, purché non raggiungano alcun risultato), facendo certificare da organi di controllo amici risultati mediocri passandoli come stratosferici, pressando il personale in un continuo ricatto di licenziamento, utilizzando narrazioni iperboliche per enfatizzare i traguardi, spesso distorcendo o gonfiando i risultati effettivi.
Di manager come Trump ne abbiamo tanti esempi, perché un presidente di uno stato non potrebbe essere come un manager che ha queste caratteristiche?
L’era dell’incertezza in cui viviamo, in questi anni si arricchisce di una visione politica e di uno stile di direzione basato sull’imprevedibilità con dichiarazioni contraddittorie, cambi repentini di posizione e decisioni inaspettate per destabilizzare gli interlocutori. Questo costringe gli altri a rimanere sulla difensiva e a reagire piuttosto che agire, lasciando al “capo”, per indolenza, incapacità a capire la bontà della fonte dell’informazione, la mancanza di un fact checking efficace, il controllo della narrazione e dell’andamento della trattativa.
Gli esperti in negoziazione affermano che lo stile negoziale di Donald Trump, che come abbiamo scritto è un mix di competitività estrema, tattiche aggressive e un uso sapiente della comunicazione funziona in molti contesti, è un metodo che può generare resistenze e divisioni, soprattutto nelle relazioni a lungo termine ma per ora sembra funzionare. Capire se punti di forza e le debolezze di uno stile come quello trumpiano sono adattabili anche ad un contesto fatto di relazioni sociali basate su contrattazione collettiva, accordi di lungo periodo e utilizzo di una trattativa collaborativa sarà essenziale per se ciò che rende abili nel mondo degli affari può diventare una abilità nuova nel modo di fare politica.
Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri
