Aprile 24

La parità di genere non si ottiene livellando gli stipendi

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Siamo all’anno zero della privacy per le informazioni sugli stipendi. Se tutte le decisioni normative che arrivano dall’Europa con la direttiva 2023/970, da recepire entro il 7/6/2026, diventeranno davvero parte del nostro sistema di leggi sul lavoro, potranno essere conoscibili, con i nomi in chiaro, dai sindacati, dagli ispettorati del lavoro e dagli organismi di parità gli importi complessivi degli stipendi in ogni organizzazione, pubblica o privata. È chiaro che l’intento (buono) di combattere il gender pay gap e favorire una parità di retribuzioni tra uomini e donne per rendere pari il livello retributivo per identica mansione tra uomini e donne si scontri con il (cattivo) modo di gestirlo. Per diversi motivi: la direttiva prevede all’articolo 12, nel primo paragrafo, che sia il regolamento Ue sulla privacy n. 2016/679 (Gdpr), che limita la possibilità di comunicare i dati personali la norma a cui fare riferimento, ma più avanti nel terzo paragrafo consente agli stati Ue di introdurre norme ad hoc sulla conoscibilità delle buste paga, anche in chiaro, un assurdo giuridico. Il cattivo uso che può essere fatto delle informazioni sulla busta paga di un dipendente (di qualsiasi livello, anche dirigente e Quadro), può produrre danni notevoli, sia per la violazione di uno spazio personale che è la retribuzione ma anche per la competizione al ribasso (si legga bene, al ribasso) che scaturirà tra posizioni diverse che verranno livellate per non diventare esempi.
Le retribuzioni delle lavoratrici scontano un gap del 13% rispetto a quelle maschili e da tempo che la Corte di Giustizia Europea ha affermato che l’eguaglianza nel trattamento economico è ‟espressione di un diritto fondamentale della persona” (causa C-50/96, Deutsche Telekom v. Schröder, punti 55-57).

Quello di tarare il salario su “criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere” e tra questi, competenze, impegno, responsabilità, condizioni di lavoro secondo un principio “stesso lavoro e lavoro di pari valore” non convince.

Torna in mente l’inciso “a parità di lavoro” contenuto nell’art. 37 Cost. ma che non voleva affatto significare “a parità di rendimento” nel segno di quel mainstream che giudicava inferiore la produttività femminile ma, anzi, il diritto della lavoratrice alla medesima retribuzione a fronte di prestazioni di pari valore. Prova dell’istinto visionario dei nostri Padri e Madri Costituenti che però mal si concilia con la visione piatta della UE.

Ciò che non piace e su cui si fa fatica a concordare è l’obbligo di trasparenza in punto di retribuzione che la direttiva riversa sulle spalle dei datori di lavoro. Prima e dopo l’assunzione. Anche la fase di recruitment è eletta a momento genetico dell’impegno lavorativo e che si sostanzia nel contratto. E se questo ha un senso per alcune categorie di lavoratori particolarmente esposti e deboli non ha alcun senso per alte professionalità e tecnici, capaci di riequilibrare, se non di dominare, nella fase di contrattazione il ruolo prevalente di potere contrattuale dell’impresa.

Per l’Europa, in altre parole, l’obbligo a corrispondere una determinata retribuzione sorge sin da prima della sottoscrizione del contratto di lavoro. E se questa non è pari o uguale ad una latra persona che lavora nella stessa impresa, nello stesso ruolo, nello stesso reparto, con la stessa anzianità (?!).

Le fonti di questa scelta davvero complessa e architetturalmente guazzabuglica sono, da un lato, il diritto di informazione riconosciuto ai lavoratori e ai loro rappresentanti, dall’altro, la procedura di valutazione congiunta disciplinata dal successivo articolo 10. Essa è preordinata al fine di “individuare, correggere e prevenire differenze retributive tra lavoratori di sesso maschile e sesso femminile”.
Ma cosa c’entra tutto questo con il merito? Con la professionalità acquisita? Con la competenza e la formazione sul campo che un lavoratore matura e che giustamente richiede diverso stipendio e diverse modalità di premio?
L’Europa ci prova, nella direttiva, a trovare una strada, la promozione del dialogo sociale. La direttiva ingaggia e rende solidali nell’impianto della norma associazioni datoriali e sindacati nella lotta alla disparità di genere. La contrattazione collettiva è, in parole altre, candidata a strumento di contrasto della discriminazione retributiva.
Su questo versante, mi viene subito in mente che i sindacati sono in profonda crisi, che non rappresentano tutti i lavoratori, che rappresentano di più i livelli più bassi nei contratti collettivi e che SOPRATTUTTO non rappresentato i Quadri intermedi.
L’impegno del nostro Governo deve essere ben altro, contrastare quei contratti collettivi “pirata” che, con buona pace dell’art. 36 Cost., sviliscono le retribuzioni dei lavoratori di entrambi i sessi. Un paradosso italico: alto il livello di copertura della contrattazione rispetto agli altri Paese europei ma minimi indici di rappresentatività sindacale.

Un innesco pericoloso la direttiva 2023/970 che è in grado di far esplodere il nostro già complesso mondo delle relazioni sindacali e soprattutto definitivamente allontanare dai sindacati giovani e alte professionalità.

Antonio Votino – direttore responsabile

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