Aprile 24

Lavoro: un futuro che cambia ed un presente che stenta a ritrovare l’Uomo

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Il mondo del Lavoro è sotto la spinta, precedente alla pandemia, di un processo di forte cambiamento e di progressiva modernizzazione. In particolare, la varietà delle trasformazioni in atto spinge il mondo del lavoro verso una crescente digitalizzazione e una maggiore apertura a modelli organizzativi e produttivi flessibili, ad un appiattimento delle linee di comando, alla erosiva spinta a ridurre le aree di comando date a pochi dirigenti, alla crescita di organizzazioni collaborative e fondate su una perenne autonomia negli spazi e nel tempo in cui svolgere la prestazione lavorative.

Un processo che è partito quando la rinuncia al capitale nella crescita delle aziende a favore della finanza che disintermedia e delocalizza con l’unico obbiettivo di un profitto che nulla ritorna ai lavoratori ed ai territori. Una sorta di frattura, rispetto al passato, che ha sancito il passaggio dal lavoro fordista, organizzato su modelli di una forte rigidità operativa e gerarchica ma almeno rispettoso di un principio che vede nel salario e nello straordinario il punto di riferimento, al post-fordismo, caratterizzato, invece, da maggiore duttilità, al modello reticolare delineato da Castell che sostiene che non è la tecnologia che, puramente, definisce le società moderne, ma anche fattori culturali, economici e politici che agiscono per costruire la società delle reti. Ma soprattutto la lucida visione della modernità liquida, descritta da Bauman che giustifica ogni forma di utilizzo del lavoratore come marginalmente utile al profitto aziendale se non nella logica di uno sfruttamento fatto da algoritmi.

E invece oltre ai fattori economici che dominano le scelte che hanno portato anche nel nostro ordinamento alla “precarizzazione normata”, alla riedizione del lavoro interinale per avere nuove tipologie di contratti di lavoro subordinato, come quella del co.co.pro, della somministrazione di lavoro del contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, insomma a quella che è la “fluidità continua del lavoro“, ossia un modo di concepire domanda e offerta di lavoro puramente virtuale e dove la marginalizzazione è il rischio assoluto. E’ sfuggito però, sia alla politica che al mondo produttivo, che nel settore lavorativo-produttivo ciò che si norma (o meglio non si norma ma si chiede al “mercato” di normare) influenza la sfera socio-relazionale e socio-familiare degli individui, producendo in esse dei notevoli effetti con cambiamenti che, se non governati all’interno del mondo del lavoro, producono ripercussioni sulla sfera meramente individuale e soggettiva dei singoli individui.

Ora che sono disponibili serie temporali e dati che dimostrano gli effetti della precarietà, come quelli di Eryk Wdowiak che era stato studente di Biagi, sono certi gli impatti della flessibilità lavorativa introdotta dalla legge Biagi: essa ha incrementato l’utilizzo di contratti part-time o temporanei, ha ridotto il tasso di occupazione maschile, aumentando però il tasso di occupazione femminile, e che i suoi effetti sono stati pressoché nulli nelle regioni meridionali.
Non tutto è male però, l’imposizione di un modo di lavorare flessibile, immateriale e privo di collocamento spaziale, sta sviluppando soprattutto nei lavoratori più giovani una maggiore predisposizione i ad organizzare la propria attività lavorativa in forma autonoma ed estremamente personalizzata con vantaggi nella sfera privata che danno all’individuo una soddisfazione maggiore rispetto a quella riscontrabile in categorie di lavoratori subordinati costretti ad un lavoro con orari e modalità ripetitive e ad un maggior appagamento delle proprie aspettative ed una minore (percepita) coercizione da parte del mercato.
Come molti dei lettori sanno sono proprio i lavoratori più giovani che oggi si presentano ai colloqui con una consapevolezza di poter ottenere un lavoro “full remote” quasi a voler affermare una forte propensione dei lavoratori a venir meno al vincolo della subordinazione, che è proprio ciò che il neo-capitalismo voleva affermare.
Questo processo sta creando proprio quell’effetto spinta a migliorare le imprese dall’interno che in molti volevano non fosse regolato se non dal mercato. Eppure è proprio l’effetto impresa-rete delineato da Castells, quel reticolato, i cui singoli nodi, costituiti dall’impresa/un’organizzazione/un singolo lavoratore, comunicano tra di loro, scambiando conoscenze e materiali utili alla produzione di beni o di servizi.
Il nuovo ruolo che il sindacato si sta ritagliando in questo momento storico è proprio quello di gestire i cambiamenti anche nelle forme contrattuali dei lavoratori. Occorre fermare la tentazione di ipernormare il cambiamento che sta avvenendo con i cosiddetti contratti occupazionali non standard, non riconducibili alle fattispecie previste dai rispettivi codici lavoristi dei singoli Stati ma lasciati ad una contrattazione tra parti sociali molto ampia. Non si tratta di intervenire di nuovo sui contratti di lavoro atipici ma di evitare che si eludano anche i diritti da tempo acquisiti da parte dei lavoratori (ferie, permessi, pari opportunità, salario collegato alla prestazione) rigettandop la tentazione di lasciare il tutto ad alea, facilmente mutabile, che vada oltre la necessità delle aziende di instaurare rapporti di lavoro più flessibili e orientati nel breve periodo.

Se da un lato la flessibilità contrattuale e l’emersione di contratti di lavoro non standard sollevano degli interrogativi in merito alle tutele degli stessi lavoratori non è distruggendo il contratto subordinato a tempo indeterminato, dall’altro lato, che si ottengono benefici per la società. La flessibilità per costituire un vantaggio deve essere ben regolata, deve affrontare il tema del giusto salario, deve intervenire nella conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, deve costituire un punto di incontro tra le esigenze, stabilire i ruoli e le risorse per consentire ai lavoratori, sempre più parte debole, di superare le crisi e i periodi di non lavoro. La crescente sensazione di precarietà e di insicurezza con cui il mondo del lavoro fa i conti da un decennio produce un impatto sulla pianificazione individuale, delle donne per prime, soprattutto in riferimento alla mancanza di tutele adeguate per i lavoratori autonomi e non-standard ma che sta coinvolgendo anche i lavoratori stabili e purtroppo il dibattito e gli interventi non sembrano seguire la velocità delle trasformazioni in atto.

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