Luglio 24

Retribuzione: le modifiche in peius sono possibili a determinate condizioni

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Come noto, le aziende, in tempi di economia espansiva e di profitti, hanno usato accordare ai propri dipendenti – in un’ottica attrattiva e scoraggiante il passaggio ad altre aziende – condizioni migliorative della regolamentazione di base del rapporto di lavoro, poi mantenutesi ininterrottamente nel corso di anni. In tempi di crisi, invece, una delle tentazioni più frequenti degli imprenditori è stata quella del recupero o della soppressione delle concessioni (o delle acquisizioni informali da parte dei lavoratori) dei benefici spontaneamente accordati, a ciò spinti dalla necessità o scelta di riduzione del costo del lavoro, al fine di mantenersi concorrenziali sul mercato.
A titolo meramente esemplificativo, tali benefici si sono attualizzati nella veste di premi periodici di produttività aggiuntivi a quelli contrattuali collettivi, di gratificazioni una tantum (quali ad es. il decennale o il venticinquennale per la fondazione dell’azienda o per il raggiungimento di una certa anzianità di servizio), di polizze aziendali sanitarie o assicurative per invalidità o morte da malattia o infortuni (professionali ed extra), di riduzioni d’orario, di riconoscimento di festività aggiuntive, di incentivazioni all’esodo anticipato o al prepensionamento ovvero in veste di benefici di agibilità sindacale accordati alle Rsa in numero e con modalità eccedenti quelle legali o contrattuali.
In riferimento alla valutazione se i trattamenti di miglior favore siano impermeabili nei confronti della contrattazione collettiva e quindi si mantengono sine die si sono succeduti vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in tema di usi aziendali.
Un vecchio orientamento della Cassazione era fondato sul carattere negoziale interindividuale degli usi aziendali, riconducibili all’art. 1340 c.c.  che legittimava il datore di lavoro alla revoca novativa del pregresso uso aziendale più favorevole asserendo che: «…ove sopravvenga un nuovo comportamento contrario del datore di lavoro, protrattosi univocamente per anni senza manifestazioni di dissenso dei lavoratori interessati e delle organizzazioni sindacali, è configurabile la sostituzione dell’uso aziendale anteriore con quello successivo, benché meno favorevole, ossia una clausola nuova, inserita per fatti concludenti nei contratti individuali».
In questo quadro di incongruenze si giunge – dietro le sollecitazioni critiche della dottrina –  ad un salto di qualità e all’inaugurazione di un nuovo orientamento da parte della Cassazione, tramite la decisione n. 9690 del 6 novembre 1996: secondo questo orientamento dunque,  le clausole d’uso si inseriscono nei contratti individuali, per effetto di un meccanismo di disciplina collettiva, similare a quella aziendale e non per effetto di un meccanismo genetico interindividuale. In tali fattispecie dunque, i trattamenti migliorativi ad uso aziendale di natura collettiva dunque, seguono le sorti delle fonti collettive con effetti di revoca o di sostituzione da parte di fonti collettive contemplanti trattamenti in peius.
L’orientamento sopra delineato viene altresì confermato dalle decisioni giurisprudenziali n. 1773/2000 e  n.8342/2010 secondo cui il trattamento di miglior favore della collettività  dei dipendenti, al pari del regolamento d’impresa costituisce espressione del potere di iniziativa economica del datore di lavoro secondo cui l’uso aziendale agisce sul piano dei singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.  I trattamenti migliorativi ad uso aziendale dunque non restano necessariamente in vita sine die ma  possono essere soppressi dagli stessi contratti collettivi  per effetto di valutazioni di opportunità tra gli agenti contrattuali antagonisti a livello nazionale o aziendale. L’attuale orientamento giurisprudenziale dunque, ha sancito che le condizioni di miglior favore non entrano a far parte del patrimonio individuale dei singoli lavoratori   ma possiedono la stessa natura delle previsioni poste in essere dalle parti sociali nei contratti aziendali o nel regolamento d’impresa, inserendosi, a pieno titolo, nell’alveo delle cd. fonti sociali a livello d’impresa.
Da questa configurazione, la giurisprudenza di Cassazione  ha fatto discendere automaticamente la conseguenza che tali trattamenti di miglior favore non sono perpetui, cioè non si mantengono sine die, né sono impermeabili ad eventuali modifiche o soppressioni disposte dalle fonti negoziali sovra-ordinate, cioè dai contratti aziendali e/o nazionali di categoria. Tali benefici da uso aziendale, in ragione della loro natura analoga ai trattamenti economico-normativi dei contratti integrativi aziendali, sono quindi soggetti alla stessa possibilità di modifica o soppressione che hanno i trattamenti dei contratti collettivi aziendali, da parte di successivi contratti aziendali o nazionali, ad opera, quindi, dei contrapposti agenti stipulanti.
Pertanto, come testimoniano numerose vertenze azionate ma risoltesi in senso negativo per i lavoratori ricorrenti, non è possibile pretenderne il mantenimento sulla base di un asserito (ma insussistente) “diritto acquisito” individuale, una volta che tali condizioni di miglior favore sorte da uso aziendale reiterato – ad esempio, riduzioni d’orario, semifestività aziendali, mensilità suppletive, erogazioni ricorrenti per celebrazione della fondazione dell’azienda (cd. decennali e simili), premi di rendimento aggiuntivi, maggiorazioni aziendali in percentuale della paga base tabellare, ecc. – siano state abbandonate e dichiarate non più sussistenti ad opera di successivi contratti collettivi (aziendali o nazionali), auspicabilmente in cambio, per i lavoratori, di altre acquisizioni compensative.

Non è raro che la retribuzione del dipendente contenuta nella busta paga, sebbene contrattualmente bassa (a volte ai limiti della sopravvivenza), venga maggiorata da tutta una serie di indennità che la rendano, alla fine, accettabile. Di norma, le indennità e la loro misura sono indicate nel contratto collettivo di lavoro nazionale ed aziendale; esse servono a compensare lo svolgimento di lavori che comportano maggiori oneri, responsabilità o solo difficoltà per il lavoratore.

Le indennità possono essere di diversa natura:

-per tutte le attività svolte al di fuori dell’orario di lavoro oppure in orari che compromettono la normale attività privata e sociale (lavorazioni legate all’orario di lavoro) sono previsti, per esempio, il compenso per lavoro straordinario, i compensi per lavoro festivo e domenicale, le indennità per turni, ecc.

-per tutte le lavorazioni legate alle mansioni o alla categoria sono previste, ad esempio, le indennità di funzione, le indennità per centralinisti ciechi o quelle a favore dei dipendenti addetti ai videoterminali di reperibilità meccanografica (o macchine), ecc.;

– per il caso di mancato rinnovo del contratto alla data di scadenza è prevista l’indennità di vacanza contrattuale (elemento ovviamente provvisorio della retribuzione, fino al rinnovo del contratto);

– per chi maneggia denaro con diretta responsabilità nel caso di ammanchi a seguito di errori nel conteggio dei valori o nella loro contabilizzazione è stabilita l’indennità di cassa. Essa spetta ai dipendenti che svolgono un’attività per il cui espletamento sia necessario il maneggio di denaro. A seconda del contratto collettivo, l’indennità può essere determinata in cifra fissa o in percentuale rispetto alla retribuzione normale o ad alcune voci, come ad esempio i soli minimi tabellari;

– per le attività svolte presso località disagevoli (da raggiungere o a causa del clima) o che richiedono trasferimenti (temporanei o per lunghi periodi) presso una sede di lavoro diversa da quella solita (lavorazioni collegate al luogo della prestazione) vengono previste, ad esempio, le indennità di disagio, quelle per disagiata sede e di trasporto, l’indennità dialloggio, di trasferta e di trasferimento, o l’indennità di estero;

– infine per chi lavora in situazioni di pericolo e rischio per la salute del lavoratore sono previste le indennità per lavori in galleria, di sottosuolo, di alta montagna e per lavorazioni nocive.

Normalmente in caso di assenza dal lavoro le indennità non vengono corrisposte, salvo diverso accordo collettivo o individuale.

Invece, qualora il lavoratore subisca un cambio di mansioni, alcune indennità collegate alle precedenti mansioni continuano ad essere corrisposte e non possono essere eliminate (per es. le indennità corrisposte in considerazione delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore), mentre altre vengono soppresse dalla busta paga (per es. le indennità erogate in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa).

Cosa succede se l’indennità in busta paga viene eliminata? Come noto, ai sensi dell’art. 2077  del codice civile, le clausole difformi dei contratti individuali  preesistenti o successivi al contratto collettivo sono sostituite da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro.
La disdetta unilaterale del datore di lavoro di un accordo aziendale a tempo indeterminato è dunque legittima ove non ne derivi la lesione della retribuzione adeguata ex art. 36 Costituzione; pertanto, nell’ipotesi in cui il lavoratore si dolga dell’abolizione di una voce retributiva per effetto della disdetta dell’accordo contrattuale che la prevedeva, e pretenda il suo ripristino, invocando la lesione dell’art. 36 Cost., non può limitarsi a dedurre la natura retributiva dell’emolumento soppresso, ma deve allegare la lesione del “minimo costituzionale” e fornire al giudice gli elementi comparativi della situazione retributiva prima e dopo la modifica, al fine di consentire il giudizio sul rispetto del principio costituzionale.

Nella vicenda oggetto di approfondimento, Licinio, dipendente della Omicron S.p.a percepiva  un’indennità indicata in busta paga con la voce indennità di mancata mensa fino al momento in cui la società Omicron comunicava la disdetta degli accordi sindacali, tra cui l’indennità di mancata mensa  e, Licinio, non avendo firmato i nuovi accordi sindacali in cui era previsto il diritto di beneficiare del Ticket Restaurant non percepiva né l’indennità né i Ticket Restaurant. Come noto la giurisprudenza ammette che un nuovo contratto collettivo di lavoro introduca modifiche peggiorative al rapporto di lavoro. Gli unici limiti a questa possibilità sono il principio della intangibilità della retribuzione  e la salvaguardia dei diritti quesiti.
In altre parole, mediante un contratto collettivo non sarebbe ammissibile prevedere una decurtazione retributiva oppure la cancellazione di un diritto che sia già maturato ed entrato nel patrimonio del lavoratore. In particolare, per disporre di un diritto quesito, sarebbe necessario un apposito ed esplicito mandato da parte del lavoratore.
Tuttavia, i contratti collettivi di lavoro sono ordinari contratti di diritto comune. Questo vuol dire che i contratti in questione possono vincolare solamente i lavoratori iscritti al sindacato  stipulante.
I lavoratori non iscritti a quel sindacato possono peraltro aderire all’accordo, cosa che può avvenire anche tacitamente.
La disposizione contenuta nell’articolo 2077 del codice civile, secondo la quale le clausole meno favorevoli previste dal contratto individuale sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, riguarda infatti,  unicamente i rapporti tra il contratto individuale e quello collettivo e non si applica alle disposizioni, anche peggiorative, introdotte da parte di un successivo contratto collettivo, con l’unico limite dei diritti quesiti che siano già entrati definitivamente a far parte del patrimonio individuale del prestatore di lavoro. (Cass. 19/2/2014 n. 3982,).§
Gli unici diritti intangibili da parte di una norma collettiva successiva sono quelli che sono già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita. Per conseguenza, la tutela ad essi garantita non è estensibile a mere pretese alla stabilità nel tempo di discipline collettive più favorevoli, o di mere aspettative sorte alla stregua di tali precedenti regolamentazioni. (Cass. 29/8/2009 n. 18548)
Nel caso in cui a una disciplina collettiva privatistica succeda altra disciplina di analoga natura, si verifica l’immediata sostituzione delle nuove clausole a quelle precedenti, ancorché la nuova disciplina sia meno favorevole ai lavoratori, giacché il divieto di deroga in peius è posto dall’art. 2077 c.c. unicamente per il contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo, con la conseguenza che i lavoratori non possono vantare posizioni di diritto quesito trovando i loro interessi individuali tutela solo tramite quella dell’interesse collettivo. (Cass. 14/6/2007 n. 13879)
Il divieto in deroga in peius posto dall’art. 2077 c.c. è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro, in relazione alle disposizioni del contratto collettivo di lavoro, in relazione alle disposizioni del contratto collettivo e non viceversa, mentre i rapporti di successione temporale tra contratti collettivi sono regolati non dall’art. 2077 c.c., ma dal principio della libera volontà delle parti contraenti. (Cass. 5/6/2007 n. 13092)
Nella successione di diversi contratti collettivi non è configurabile l’illegittimità della nuova disciplina per violazione dei principi di adeguatezza della retribuzione e di garanzia delle professionalità acquisite di cui agli artt.36 Cost. e 2103 c.c., nel caso in cui la modifica dei criteri di calcolo della retribuzione non determini un peggioramento del livello economico acquisito dai lavoratori e non incida sulla loro professionalità, comportando la loro assegnazione a mansioni meno qualificanti. (Cass. 12/2/00, n. 1576)
I  contratti collettivi di diritto comune sono abilitati anche a modificare in senso peggiorativo precedenti e più favorevoli clausole contrattuali, ma esplicano la loro efficacia esclusivamente riguardo ai soggetti iscritti e rappresentati,  ed in ipotesi di successione nel tempo di più contratti collettivi, eventuali modifiche peggiorative devono far salvi gli intangibili diritti acquisiti di natura retributiva, per tali intendendosi quelli aventi a oggetto elementi retributivi collegati alla professionalità del lavoratore, e restandone esclusi quelli inerenti a particolari modalità della prestazione (Cass. 22/4/95 n. 4563).

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, dunque, le modificazioni in senso peggiorativo per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti dovendosi quindi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale. La disdetta unilaterale del datore di lavoro di un accordo aziendale a tempo indeterminato è  infatti legittima ove non ne derivi la lesione della retribuzione adeguata ex art. 36 Costituzione; pertanto, nell’ipotesi in cui il lavoratore si dolga dell’abolizione di una voce retributiva per effetto della disdetta dell’accordo contrattuale che la prevedeva, e pretenda il suo ripristino, invocando la lesione dell’art. 36 Cost., non può limitarsi a dedurre la natura retributiva dell’emolumento soppresso, ma deve allegare la lesione del “minimo costituzionale” e fornire al giudice gli elementi comparativi della situazione retributiva prima e dopo la modifica, al fine di consentire il giudizio sul rispetto del principio costituzionale.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 20/10/2015 n.21232, ha infatti deciso che i contratti collettivi di diritto comune, poiché costituiscono la manifestazione dell’autonomia negoziale di chi li stipula, operano solo nell’ambito temporale concordato dalle parti, dato che se si dovesse optare per il principio dell’ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, si violerebbe la garanzia prevista dall’articolo 39 Cost.
Secondo la Suprema Corte, infatti in caso di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché’ le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (articolo 2077 cc), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale (Cass., n. 13960/2014).
Inoltre, continua la sentenza 21232/2015, i contratti collettivi aziendali devono ritenersi applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso (Cass., n. 10353/2004).
Osserva ancora la Corte di Cassazione, il lavoratore, che abbia contestato l’applicabilità nei suoi confronti di un contratto collettivo modificativo “in peius” di diritti già acquisiti sulla base di una precedente contrattazione, non può aderire allo stesso contratto, in relazione alla disciplina di quei medesimi diritti, solo per la parte più favorevole, posto che la disciplina collettiva deve avere normalmente un’applicazione integrale, senza commistione e sommatorie fra i contenuti dei contratti collettivi succedutisi nel tempo, salvo un’espressa volontà delle parti in tal senso (Cass., n. 14741/1999).Infine, richiamando l’orientamento precedente (Cass., n. 18548/2009), i giudici di legittimità hanno ricordato anche che il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare, nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, la perpetuità del vincolo obbligatorio.
Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza, dunque, la domanda del lavoratore di vedersi riconosciuta la precedente indennità sostitutiva della mensa non può essere riconosciuta, essendo venuta meno a seguito della disdetta dell’accordo sindacale che la prevedeva. Licinio, infatti, non ha addotto prove documentali che dimostravano che tale mancanza avesse inciso sul principio costituzionale di adeguatezza della retribuzione.
La disdetta unilaterale del datore di lavoro di un accordo aziendale, infatti, è legittima ove non ne derivi una lesione della retribuzione adeguata ex art. 36 della Costituzione.
Licinio infatti non avrebbe dovuto addurre genericamente una lesione del trattamento retributivo ma avrebbe dovuto allegare la lesione del minimo costituzionale fornendo al giudice gli elementi comparativi della situazione retributiva prima e dopo la modifica contrattuale al fine della valutazione del rispetto del principio costituzionale.

Per approfondimenti: Cassazione n. 1773/2000 e  n.8342/2010, scritto il 31/07/2019 da Studio Cafasso www.studiocafassoefigli.it