Lavoratore in malattia: secondo lavoro senza essere licenziato se mansioni insignificanti

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Il caso che segnaliamo questo mese riguarda una recente sentenza della Corte di Cassazione relativa al licenziamento di un dipendente che, pur risultando assente per infortunio, era stato sorpreso a svolgere alcune attività in un bar di sua proprietà. In particolare, era stato osservato mentre utilizzava l’arto infortunato per compiti leggeri, come fumare, usare il cellulare o stringere la mano agli interlocutori.
Il giudice d’appello, sulla base delle risultanze istruttorie, ha qualificato tali comportamenti come “insignificanti” e, soprattutto, non idonei a compromettere il processo di guarigione. Di conseguenza, il licenziamento è stato ritenuto illegittimo, decisione successivamente confermata dalla Corte di Cassazione.
La Cassazione ha ribadito alcuni principi ormai consolidati: ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa, è il datore di lavoro a dover dimostrare che le attività svolte dal dipendente durante l’assenza siano oggettivamente idonee a compromettere la guarigione o a ritardare il rientro in servizio. Inoltre, deve sussistere un nesso causale tra tali attività e un eventuale pregiudizio alla salute del lavoratore, tale da ostacolarne il recupero.
Ne deriva che lo svolgimento di attività, anche extralavorative, durante un periodo di assenza per malattia o infortunio non costituisce di per sé un illecito disciplinare, salvo che esse siano tali da compromettere effettivamente la salute del dipendente (Cass. n. 13063/2022) o facciano ragionevolmente presumere l’insussistenza della patologia denunciata, suggerendo un comportamento simulato (Cass. n. 26496/2018).
In questo contesto, l’art. 5 della Legge n. 604 del 1966 stabilisce che è il datore di lavoro a dover fornire prova concreta e documentata della capacità dell’attività contestata di ostacolare la guarigione e il conseguente rientro in servizio. In particolare, grava sul datore l’onere di dimostrare tutti gli elementi fattuali – oggettivi e soggettivi – che configurano l’illecito disciplinare, secondo i principi espressi anche dalla Cassazione (Cass. n. 26496/2018). In tale ottica, lo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia può costituire violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede.
Rilevante, inoltre, è il criterio valutativo “ex ante” adottato dalla Corte, secondo cui la condotta del lavoratore deve essere valutata in relazione alla compatibilità dell’attività con la patologia denunciata, evitando presunzioni generiche di pericolosità. Solo qualora sia dimostrabile che l’attività possa concretamente aggravare la condizione clinica, è possibile configurare una violazione degli obblighi sanciti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice Civile.
A conferma di questo orientamento si colloca anche l’ordinanza della Cassazione n. 28255 del 4 novembre 2024. In quel caso, una lavoratrice era stata ripresa da un’agenzia investigativa mentre guidava un’autovettura, trasportava borse e utilizzava un cellulare con l’arto infortunato. Sebbene il datore di lavoro avesse ritenuto tali comportamenti incompatibili con la patologia, la Corte d’Appello – con decisione poi confermata dalla Cassazione – ha escluso che tali azioni avessero aggravato la lesione o ostacolato la guarigione. Le prescrizioni mediche dell’INAIL, infatti, non prevedevano limitazioni di movimento al momento dell’osservazione.
Fonte: ordinanza Corte di Cassazione n. 23747 del 4 settembre 2024