Smart organization e hybrid working: quando il lavoro agile è (davvero) smart

“Finita l’emergenza, il passaggio ulteriore porterà dallo smart working alla smart organization. La domanda da farsi è una: vogliamo diventare organizzazioni smart?” 

Con questa sollecitazione si entra nel vivo di Applicare lo Smart Working, l’incontro on-line organizzato dal Club CMMC lo scorso venerdì 11 febbraio. A parlare è Arianna Visentini, CEO e Fondatrice di Variazioni, società di consulenza specializzata in  work life balance, con un focus su flessibilità e smart working. 

Il nuovo modello promette molti potenziali vantaggi (costi inferiori, flessibilità, maggior accesso al talento…), ragiona l’esperta, ma è una trasformazione non banale. E infatti le criticità emergono rapidamente nel corso del panel. 

Come il grande dilemma di Enrico Martino, Direttore Risorse Umane Comdata, che si chiede: che fare quando il lavoro non si configura completamente né come telelavoro, né come smart working? E come controllare la qualità della performance? Interrogativi cui si intrecciano le riflessioni di Fabio Di Giulio, General Manager GGF Group, e Paolo Ghezzi, Direttore Generale Infocamere, convinti che, per raggiungere un equilibrio in simili questioni, i grandi temi da affrontare siano responsabilità e fiducia.

E, certamente, un aspetto fondamentale su cui le aziende devono concentrarsi è prima di tutto la creazione di una cultura comune, che permetta di sviluppare coesione sociale e fiducia condivisa. Un passaggio significativo di persone alla modalità di lavoro da remoto comporta, infatti, un rischio di erosione di quegli stessi elementi (fiducia, coesione e condivisione) che permettono al lavoro a distanza e alla collaborazione virtuale di essere efficaci. 

Ma anche allineare gli interessi è importante, sottolinea Lelio Borgherese, Fondatore e Presidente del Gruppo Activa. E qui la premialità gioca un ruolo chiave. A questo proposito, Network Contacts, Company del Gruppo Activa, ha varato un significativo accordo sulla premialità con le lavoratrici e i lavoratori stessi. “Il variabile guadagnato come outsourcer viene ribaltato sui lavoratori che hanno collaborato alla prestazione. È un cambiamento di logica, dove il salario si lega, nella sua parte variabile, alla qualità della prestazione” spiega Borgherese, e conclude: “Poiché lo smart working è un nuovo modo di fare azienda e lavoro, abbiamo anche lavorato sugli spazi dell’ufficio, che resta centrale come dimensione culturale e di condivisione, ma va reso attrattivo. Nel nostro caso grazie a game room, palestra (Che fatica!) e supermercato interno (Insuperabili)”. Un doppio binario, dunque: da un lato allineamento di interessi, dall’altro potenziamento degli spazi di lavoro

Tutte queste considerazioni offrono terreno fertile per ulteriori approfondimenti. 

È opportuno ricordare infatti, come rilevato dalla Relazione del Gruppo di studio Lavoro agile del dicembre 2021, che i lavoratori da remoto possono anche sentirsi isolati. Il senso di appartenenza, lo scopo comune e l’identità condivisa che ispirano tutti noi a fare del nostro meglio nel lavoro possono perdersi. In un estratto della Relazione si legge:

“La ‘domiciliarizzazione’ del lavoro agile è assunta come potenziale fonte di isolamento sociale e di esclusione dal tessuto relazionale che, in diversa misura in base agli specifici contesti lavorativi e ai ruoli/mansioni dei singoli soggetti, caratterizza il lavoro in presenza”. E ancora: “Il lavoro agile per le persone in condizione di fragilità potrebbe rappresentare una misura inclusiva, che consentirebbe dunque di rimuovere – nei limiti del possibile – le barriere che impediscono o rendono difficoltoso l’ordinario svolgimento delle attività lavorative […] Allo stesso tempo, tuttavia, non va sottovalutato che si debba prevenire il rischio di isolamento e di marginalizzazione, garantendo anche una adeguata informazione e formazione”.

Dati alla mano, si può dire che in termini di produttività i lavoratori da remoto registrino migliori performance e siano più autonomi. Ma è anche vero che quando subentra lo smart working, il lavoratore rischia di dilatare le proprie ore di lavoro – overworking – con conseguente sovraccarico di stress, fino al burnout. 

Per molti di noi, il lavoro in azienda rappresenta ancora un metronomo delle attività da svolgere. Uno strumento di controllo che è difficile traslare tra le mura domestiche; cambiare abitudini richiede un importante lavoro su sé stessi. 

Questo lavoro può e deve essere facilitato da manager e responsabili, che a loro volta è opportuno allenino uno specifico asset di competenze: come la capacità di ascolto, l’apertura al dialogo e al supporto, oltre alla propria capacità di delegare. I leader dovrebbero non solo dare ai team responsabilità e obiettivi chiari, e l’autonomia per realizzarli, ma anche guidare, ispirare e indirizzare i team verso le migliori opportunità, fornendo loro gli strumenti necessari a muoversi velocemente. 

Gestire al meglio la transizione verso un modello smart, ibrido e partecipativo, è in ultima analisi dedicare attenzione ai dipendenti. È importante creare una cultura in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel commettere errori, a parlare apertamente e generare idee innovative.

Con queste premesse e se affrontato nel modo giusto, il nuovo modello ibrido può aiutare a sfruttare al meglio il talento ovunque risieda, plasmando una cultura aziendale ancora più forte di prima.